Quella che vi raccontiamo oggi è una storia che ci riguarda.
Che fa parte della nostra storia collettiva, che fa parte della nostra terra, che fa parte del nostro presente e del motivo per cui c’è ancora bisogno di non rimanere indifferenti, di lottare, di essere partigiani.
È la storia di una donna. Di una combattente. Di una comunista.
Il suo nome è Gabriella Degli Esposti, nome di battaglia Balella, medaglia d’oro della Resistenza.
Gabriella nasce nel 1912 in una famiglia di lavoratori socialisti di Crespellano, vedendo fin da piccola il trattamento persecutorio che lo Stato, prima liberale e poi fascista, garantiva ai «sovversivi» che credevano e lottavano per un ideale di uguaglianza e giustizia come suo padre. Negli anni Trenta, in piena dittatura fascista, invece di rassegnarsi al regime trasforma il caseificio di Piumazzo che gestisce insieme al marito Bruno Reverberi in un punto di riferimento degli antifascisti locali.
È nel momento più buio che, come militante comunista, non abbandona la lotta e si impegna ancora di più alla costruzione del tessuto sociale e organizzativo che darà vita alla Resistenza. Negli incontri segreti organizzati dalla coppia vengono diffusi i giornali clandestini, si rafforza la rete di chi si oppone al regime e si raccolgono fondi per aiutare i prigionieri politici incarcerati nel Forte Urbano di Castelfranco Emilia, molti dei quali in attesa di essere mandati al confino. L’attività di agitazione e supporto continua senza tregua, tra repressione e persecuzioni dei gerarchi fascisti locali, fino al 1943, quando la presenza delle truppe naziste tedesche a Castelfranco permette agli squadristi in camicia nera di spadroneggiare senza più alcun ritegno contro la popolazione locale.
Gabriella, allora, non si tira indietro e intensifica la lotta, partecipando ai sabotaggi e alle prime piccole azioni partigiane contro l’occupazione nazifascista: si seminano chiodi sulle strade, si spostano cartelli segnaletici, si raccolgono armi si organizzano scioperi, gruppi di difesa e proteste popolari. Ai primi di ottobre del 1944, quando il partigiano Roberto Moscardini – nome di battaglia Lupo – viene ucciso in un’imboscata e il suo cadavere appeso dai fascisti per i piedi davanti all’entrata della scuola di Castelfranco perché anche i bambini lo vedessero come preciso monito terroristico, è Balella a farsi avanti per chiedere che il corpo sia sepolto. Qualche giorno dopo, anche per questo, tocca al suo Bruno: viene picchiato a sangue dalle squadracce. Si decide così ad andare sulle montagne, verso Montefiorino, dove raggiunge i compagni delle formazioni partigiane comuniste.
Gabriella resta da sola, con due bambine piccole e un’altra creatura in arrivo. Il 13 dicembre 1944, nella loro casa, irrompe un reparto di SS. Sono criminali nazisti in divisa militare, fanatici e violenti, portati lì dai pavidi fascisti locali. Quando le urlano addosso il suo nome e quello di suo marito, Balella raccoglie il suo sangue freddo e risponde che i proprietari di casa non ci sono, che lei è sfollata lì con le piccole, e li convince a cercare in un’altra località. Poco dopo le SS ritornano, distruggono la casa, il loro comandante la picchia senza ritegno davanti alle figlie terrorizzate e la fa portare via. La rinchiudono nell’Ammasso della canapa, un edificio alle porte di Castelfranco, insieme a molte altre persone rastrellate, come lei, su indicazione degli infami fascisti del posto.
Viene torturata in modo orribile, ma non parla.
Le portano davanti altre persone perché le riconosca come partigiani, ma da lei non uscirà un solo nome.
La sua sorte, per i nazifascisti, è segnata.
Il 17 dicembre 1944, a San Cesario, sul greto del fiume Panaro, Gabriella viene fucilata insieme ad altre dieci persone (Sigialfredo Baraldi; Gaetano Grandi; Ettore Magni; Annibale Marinelli; Livio Orlandi; Roberto Pedretti; Dino Rosa; Lucio Pietro Tosi; Ezio Zagni; Riccardo Zagni), unica donna del gruppo. Il suo cadavere viene ritrovato privo degli occhi, con il ventre squarciato e i seni tagliati, a testimonianza delle orribili sevizie a cui era stata sottoposta prima di morire.
Il supplizio di Gabriella, che è stata proclamata eroina della Resistenza, induce molte donne della zona a raggiungere i partigiani. È così che si costituisce il distaccamento femminile “Gabriella Degli Esposti”, forse l’unica formazione partigiana formata esclusivamente da donne.
Dopo la guerra, la famiglia di Gabriella avrebbe dovuto sopportare, in quanto partigiani e comunisti, altre persecuzioni.
Nonostante che fin dai primi giorni della Liberazione la magistratura avesse i nomi dei criminali nazisti che avevano massacrato Gabriella, per sessant’anni nessuno li ha chiamati a rispondere. Il fascicolo della strage di San Cesario, infatti, è finito anch’esso nel famigerato “armadio della vergogna”, il mobile girato al rovescio, con le ante verso il muro, scoperto nel 1994 in un archivio della Procura generale militare di Roma. Con centinaia di altri fascicoli che documentano le stragi naziste compiute in Italia era stato “archiviato provvisoriamente”, ovvero occultato, all’inizio degli anni Sessanta, a evidente prova della continuità degli apparati dello Stato fascista all’interno della Repubblica “nata dalla Resistenza”.
Oggi, 17 dicembre 2018, vogliamo ricordare Gabriella come un esempio di coraggio, di militanza, di abnegazione, un esempio non pacificabile in una memoria condivisa che oggi vorrebbe mettere sullo stesso piano oppressi e oppressori, antifascisti e nazifascisti, partigiani e repubblichini, ribelli rossi e terroristi neri.
Un esempio per tutti noi di una lotta quotidiana che non è ancora finita e continua oggi contro uno stato di cose oppressivo, contro lo sfruttamento, contro il riemergere di un nuovo fascismo organizzato e diffuso perfettamente integrato in questa democrazia svuotata dall’interno, coltivato dallo Stato e dalla totalità delle sigle dell’arco politico istituzionale, dal governo gialloverde alle opposizioni, un nuovo e antico nemico che prende forza sempre più grazie all’indifferenza e alla paura.
La stessa paura e indifferenza che Gabriella ha combattuto, fino all’ultimo respiro.