Alcune note da Modena su post-elezioni, antifascismo, e noi.
È cambiata molto la città di Modena in questi ultimi anni, forse per incapacità di una classe dirigente non più all’altezza, forse anche lei travolta dagli eventi e dai processi che questo paese sta subendo oppure, e siamo propensi a pensarla così, la tenuta sociale del modello emiliano studiato e applicato dal vecchio PCI e portato avanti dell’attuale PD non regge più.
I risultati di queste elezioni ne danno la prova: il PD in caduta libera in tutta la regione, definitivamente non più quella roccaforte socialdemocratica inespugnabile; il partito delle élite finanziarie, delle tecnocrazie europeiste e delle politiche lacrime e sangue riesce a resistere solo in città, ma è sepolto in tutta la provincia dal cosiddetto “voto antisistema” al M5S e dalla crescita esponenziale della Lega “lepenizzata” come contenitore nazionalista e razzista delle spinte centrifughe provocate dalla crisi e dalla guerra tra poveri.
La “ricca” e “rossa” Modena oramai non esiste più e le forti diseguaglianze sociali cominciano a farsi sentire pure su tutta la provincia. Il poco di welfare modenese rimasto si sta sgretolando, insieme alle limitate risorse per la sanità e per la scuola, sempre più limitate; molti posti di lavoro non esistono più, altri sono al limite del collasso, altri ancora sono diventati puro sfruttamento schiavile della forza lavoro; molti quartieri sono abbandonati a se stessi e a finte promesse di rilancio che non sono altro che gentrificazione e speculazione immobiliare; una situazione casa molto preoccupante, tanto da far si che Modena sia una delle città con il più alto numero di sfratti per morosità incolpevole. Tutto ciò ha generato una conseguente percezione di insicurezza generale molto diffusa, non solo per la tenuta del reddito famigliare di ognuno, ma anche nel complesso per un presente fatto di precarietà e paura di perdere quel poco che ci è rimasto.
Nonostante tutto questo, le varie amministrazioni comunali continuano il loro distaccato percorso di politiche atte a pure speculazioni sul territorio, favori a imprese o cooperative amiche e mere misure assistenzialistiche che di fatto non vanno a influire sul reale stato del welfare cittadino e della provincia.
Vuoti politici preoccupanti su più fronti che non trovano risposte se non nella destra sempre più estrema, populista e razzista, attraverso l’individuazione di un capro espiatorio adatto a sobbarcarsi tutte le colpe di un modello di società e sviluppo che i diretti responsabili non vogliono pagare. Esiste ancora qualche sacca di resistenza a sinistra ma purtroppo la tendenza è quella di finire sempre con lo spegnersi o nel trasformarsi in un recupero istituzionale con il risultato di non ottenere nulla.
Vuoti politici che hanno a cuore solo di una parte misera di popolazione, quella più benestante e quella degli affari, lasciando ai margini il resto di chi deve sudarsi la pagnotta ogni mese. Questo lo possiamo toccare con mano con alcune vertenze nel mondo del lavoro, dal settore delle carni alla logistica alla metalmeccanica, solo per citarne alcuni. Settori dove su tutti due sindacati, Si Cobas e pezzi della Cgil, con modalità diverse, hanno scoperchiato un sistema corrotto e di sfruttamento messo in piedi da false cooperative o sistemi mafiosi per lucrare sugli operai, molto spesso immigrati, soggetto usato dal padronato per abbassare i costi del lavoro e alzare i profitti esponenzialmente.
Quello che rimane agli atti, però, è la distanza della politica verso i lavoratori, italiani e non italiani (il sudore non ha colore, religione e provenienza!), lasciati ancora una volta SOLI a lottare, per non andare a intaccare le connivenze tra partiti e gruppi di potere economico. Queste lotte necessitano di sostegno e spinte maggiori e di abbattere quegli steccati che troppo spesso sigle sindacali e solidali mettono tra loro. Questo perché con l’avvento del Jobs Act se da una parte si legalizza lo sfruttamento e precarizzazione della forza lavoro con la generalizzazione dei contratti a tempo determinato e a chiamata, dall’altra parte i pochi rimasti con contratti a tempo indeterminato sono stretti in una morsa di ricatti legislativi, economici e di condizioni di lavoro sempre peggiori.
Siamo in una fase dove non esiste “il più bravo” e il “meno bravo”, il “più giusto” e il “meno giusto” a sostenere le ragioni di chi è sfruttato e tira a campare, di chi è sotto sfratto, di chi è sottopagato o cerca lavoro, o di chi non ne può più di vivere una vita di insicurezza, precarietà e senza futuro; siamo in una fase dove l’obiettivo principale è combattere il nemico e portare a casa dei risultati, poi i conti si faranno una volta aggiudicata la vittoria.
Quel vuoto politico di cui parlavamo si tocca con mano nei nostri quartieri, ma più in generale su tutto l’arco della provincia. Questa è l’ultima generazione che può permettersi di continuare a vivere di rendita grazie al lavoro e ai sacrifici dei nonni e dei genitori, mentre i cosiddetti “millennials”, le più giovani generazioni, ci dicono che dovranno convivere con una crisi sempre più strutturale e permanente. I racconti che ci fanno sulla ripresa non sono altro che uno specchietto per le allodole (ripresa per chi? Di sicuro non per noi!), dove una classe politica è consapevole del suo operato, e continua a far crescere la distanza tra ricchi e poveri.
Crediamo sia necessario in questa fase smettere con la retorica dell’immigrato come unico “soggetto debole”. Oggi viviamo un’era dove il soggetto debole, oltre al classico proletario, è diventato anche quello che una volta era il ceto medio, quello che contribuiva e approfittava della ricca e rossa Modena. Oggi questo ceto medio non esiste più, è spaccato a metà tra chi (pochi) ancora riesce a mantenere una condizione pre-crisi e chi (i più) invece si vede scivolare ai livelli più bassi, dove la condizione del migrante è lì a fare da monito – ed è da qui che nasce il razzismo: dalla paura di finire come “l’ultimo arrivato”, dalla guerra tra poveri e più poveri per accaparrarsi delle poche briciole che dai piani alti lasciano cadere.
Qui ai piani bassi, dove esiste un magma sociale pieno di rabbia, è a nostro modo di vedere lo spazio dove andare, la composizione di classe da andare a intercettare: stare tra la nostra gente, nei quartieri e nella provincia dimenticati, e in quei luoghi della città dove si incontra, che troppo spesso abbiamo denigrato, ma che sono un contenitore sociale pieno di risentimento e voglia di rivalsa, di fargliela pagare.
Per fare questo pensiamo sia indispensabile tornare da dove siamo venuti: la strada. Lo si può fare solo uscendo dai centri sociali.
Uscendo da quel “centrosocialismo” come forma, stile e fine di un progetto politico – escludendo qualche eccezione che conferma la regola – che vediamo come ormai accartocciato su se stesso, tra ghetto e folclore, e non più efficace per produrre quella necessaria critica fattuale dell’esistente.
Là fuori, seppur mistificato o non espresso come piace a noi, c’è accumulo di risentimento e voglia di riscatto. Non ci interessa rinchiuderci in quattro mura se il fine ultimo è quello di fare aggregazione e basta. Vogliamo combattere la depressione dei rassegnati e l’autocompiacimento dei soddisfatti.
Noi lo vediamo come un passaggio necessario, perché la situazione sociale attuale è un assist a porta vuota per quelle formazioni che fanno del becero populismo xenofobo la loro linea politica, e che ha permesso a molte formazioni di estrema destra di riemergere dall’oscurità e andare a proporsi di riempire quegli spazi sociali e politici che una volta in città erano riempiti dal PCI, e nel passato recente dalle lotte sociali messe in piedi dalle passate esperienze antagoniste cittadine. Un vuoto che ha permesso nella nostra città l’apertura di una sede fascista mascherata da centro culturale e che in diversi quartieri cittadini, partendo proprio da quella sede, cominciassero tutta una serie di iniziative, come le ronde, atte solo per mera propaganda partitica, ma ben viste da molta popolazione modenese.
Per alcuni l’antifascismo potrebbe sembrare una perdita di tempo o una lotta arretrata perché di fatto non si fanno lotte sociali. Poteva essere vero in una fase che ci siamo lasciati alle spalle. Oggi l’antifascismo ritorna a imporsi come strategico: già il fatto di contrastare formazioni di estrema destra, fasciste e razziste, vuole dire fare lotta sociale, fare lotta di classe, perché apre spazi di manovra, impegna le teste di ponte avversarie, mantiene una trincea a difesa delle nostre posizioni, accumula forza per l’attacco. Una lotta che non trova il fine nel solito corteo cittadino di turno, questo è solo uno dei suoi tanti passaggi, ma che vive nella quotidianità del lavoro dei compagni: sui posti di lavoro, nelle scuole, sui mezzi pubblici, nei bar, nei mercati, negli uffici, nei rioni, nei paesi. Una quotidianità che non è per forza un intervento politico che ha bisogno di chissà quali strutture, ma un lavoro costante per andare a interrompere un modo di pensare e agire che oramai è sempre più molecolare, quello del fascismo e del razzismo.
Molti già si mettono alle spalle, dopo i pessimi risultati alle elezioni di Forza Nuova e Casapound, l’allarme suscitato dall’avanzata e dalla recrudescenza di un movimento fascista, definito come “bolla mediatica”. È il caso dell’Anpi nazionale, che con un comunicato delirante e totalmente fuori dalla realtà si rallegra delle cifre da prefisso telefonico delle organizzazioni neofasciste. Come se queste organizzazioni non avessero imposto la propria presenza – sempre garantita e protetta dl servizio d’ordine offerto da questure e prefetture dello Stato – nelle piazze e nelle strade, tra coltellate, attacchi incendiari e cacce all’immigrato, anche con proiettili; come se non avessero enormemente accresciuto le proprie file militanti, le cerchie di simpatizzanti e ottenuto una normalizzazione democratica convertita in centinaia di migliaia di voti; come se le proprie parole d’ordine di violenza razzista, di nazionalismo aggressivo, di oscurantismo sessuale, di pulizia e deportazione etnica, di gerarchizzazione umana in base al “sangue” e al “suolo” non siano state fagocitate dall’intera campagna elettorale e fatte proprie dalla Lega “lepenizzata” di Salvini, oggi un partito di estrema destra al 20%. Il pericolo dei fascisti non si misura tanto sulla percentuale elettorale che riescono a raggiungere, ma su quanto i loro slogan, le loro parole, il loro modo di vedere il mondo, le relazioni e la società (e agire di conseguenza!) circolano nei quartieri, nei paesini, nei bar, nelle palestre, negli stadi, sui treni, sui posti di lavoro… Le loro organizzazioni sono cresciute, hanno aperto sedi diffuse in tutti i territori, hanno assunto numerose articolazioni sociali, e sono lì per restare. Attenzione: fascismo non è più la camicia nera o il fascio littorio, le adunate e i saluti romani, quelle sono robe per nostalgici; il fascismo oggi, in tutte le sue sfumature verdi, brune e nere, non solo è concentrato in specifiche organizzazioni, ma è diffuso e diluito nella “società civile” e nell’“opinione pubblica”, nella democrazia in disfacimento, nell’informazione asservita, nella discriminazione legalizzata e nei centri di comando tecnocratici.
Se come antifascisti e antifasciste siamo presenti e abbiamo il coraggio di metterci noi stessi, il nostro corpo, le nostre mani, la nostra intelligenza, il nostro coraggio, il nostro amore, la nostra gioia, la nostra rabbia, il nostro odio e stare tra la nostra gente, sarà più facile aprire squarci in questo sistema di sfruttamento, miseria e morte, come sarà più facile mantenere le braci del conflitto accese senza aspettare chissà quale “coscienza di classe” infusa come fosse la fiammella dello spirito santo.
Per noi tutto questo è fondamentale: l’aspetto quotidiano, quello dei piccoli gesti di resistenza, quello culturale del pensiero critico, quello aggregativo, quello più propriamente militante, come è fondamentale il lavoro dei compagni e delle compagne nelle loro specificità, perché non siamo ipocriti, non abbiamo delle soluzioni in tasca, ma abbiamo una verità: la flessibilità delle tattiche e la diversità delle risposte deve essere in funzione della rigidità strategica. Si vince colpendo uniti con intelligenza collettiva e forza coordinata anche se si è marciato divisi e lontani. Come fanno altrimenti mille punture d’api ad abbattere un elefante?
Per questo pensiamo che ogni lotta vada sostenuta se finalizzata a rendere più fragile questo insostenibile stato delle cose presenti, costruito a vantaggio di chi sta in alto, e portare forza alla nostra gente, che sta in basso ma guarda al cielo.
In quest’ora più buia, facciamo divampare la speranza e il coraggio. «Vale per tutti quelli che vivono in tempi come questi, ma non spetta a loro decidere. Possiamo soltanto decidere cosa fare con il tempo che ci viene concesso».
Solidarietà a tutti i compagni e le compagne colpite dalla repressione.
Combattiamo la paura. Distruggiamo il fascismo.
Modena antifascista